Sergio Barletta: “Anche durante l’Emergenza Coronavirus la lingua italiana è stata maltrattata da quella inglese. E il dialetto milanese ha ormai perso il suo fascino antico”

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Ci siamo sentiti spesso, durante questo periodo di clausura e di lontananza forzata. E mentre parlavamo, ovviamente, della pesante situazione che stiamo ancora vivendo e che si spera possa continuare ad alleggerirsi giorno dopo giorno, ad un certo punto mi ha chiesto: “Mi piacerebbe rispondere a qualche domanda su come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua”. Sul momento, la proposta lanciata dal mio caro amico Sergio Barletta mi è parsa naturalmente fuori tema, rispetto all’unico argomento, in pratica, di cui si parla e si scrive. Poi mi sono detto che forse era una maniera per provare a chiacchierare d’altro, magari restando in qualche modo ancorati all’attualità. Cosentino trapiantato in Lombardia, 65 anni, sposato e padre di due figli, Barletta è un apprezzato e stimato consulente assicurativo con una profonda cultura umanistica e una grande passione per la politica e il teatro, coltivata fin da giovanissimo. Ha diretto diverse pubblicazioni, scritto romanzi, fondato organismi culturali, organizzato e condotto eventi legati ai temi dell’immigrazione, della giustizia e della legalità.

Caro Sergio, durante l’Emergenza Coronavirus sono emerse altre grandi crisi del nostro Paese. Innanzitutto quella della lingua, visto ciò che è accaduto e ancora accade, riguardo ai problemi di comunicazione legati a questa situazione. Come sta l’italiano, secondo te?

“Dobbiamo prendere atto che gli italianisti di rango, gli studiosi di storia, costume, civiltà, cultura e letteratura del nostro Paese, lamentano l’esistenza di nemici dell’Italiano. Questi stessi studiosi speravano in cuor loro, che i tanti sforzi fin qui svolti, tesi a mantenere salvi il primato e la tradizione della nostra lingua si potessero relegare all’ambito informale e quotidiano che gli appartengono. Se noi invece di “cibo di strada” diciamo “street food”, oppure, “competitor” al posto di “avversario” strapazziamo, l’Italiano, oggetto oggi di un profondo logoramento, non soltanto per il proliferare, appunto, degli anglicismi, ma pure per un preoccupante peggioramento delle nostre condizioni linguistiche. Pensa che addirittura i politici italiani, ma anche gli scienziati della medicina, in occasione dell’Emergenza Coronavirus preferiscono “lockdown” invece che “chiusura” o “blocco d’emergenza”. Quando alcuni governi di Paesi stranieri vietano l’ingresso agli italiani per via del virus, gli stessi ministri italiani rispondono che non accettano “black list”, anziché “lista nera”. Capita spesso che leader di schieramenti politici gridino di voler “refreshare” il Paese, quando ritengono di “rivoltarlo come un calzino”. L’italiano è una lingua colta, forse eccessivamente colta. Contiene molto Latino e con il Latino ha sempre dovuto fare i conti. Per questo assistiamo a una specie di conflitto tra la vecchia e la nuova lingua. Figurati che Dante, nel Convivio, dice che l’Italiano è il nuovo sole che deve sorgere là, dove il vecchio sole (e cioè il Latino) deve tramontare. La grammatica di Fortunio prima e di Bembo il Cardinale poi (siamo verso la fine del ‘400), forse ha complicato un po’ le cose, mentre fallì il tentativo di Leon Battista Alberti di dare delle regole che derivavano dal Volgare, che voleva significare “lingua matura e degna di stima dall’uso prestigioso”. Si era pensato che il solo contatto della popolarità linguistica potesse guastare la lingua. Ora, possiamo ammettere che la nostra lingua non sia assolutamente guasta, ma l’esasperazione delle regole, privandosi del Volgare, ne ha ridotto la popolarità, continuando ad elevarsi a lingua d’elite. Ma pure una lingua corrotta, quando la giustizia adotta termini come “maladministration”. E La morte dell’Italiano, secondo Pasolini, si rivela profezia”.

Sergio Barletta, 65 anni, calabrese trapiantato in Lombardia, è un profondo conoscitore della lingua italiana e dei dialetti

L’impoverimento linguistico lo si attribuisce ai mezzi di comunicazione. Secondo te è davvero colpa dei giornali, Tv e social network oppure è un problema di chi li adopera?

“L’ impoverimento della nostra lingua è allarmante. Il suo stato di salute è assai precario. Non soltanto i mezzi di comunicazione di massa tradizionali, come le Tv e i giornali, ma anche i social network influenzano profondamente le abitudini e la formazione linguistica di ognuno di noi. Oggi, purtroppo, seppur inconsapevolmente (questo vale per i social e non per i mass media), con l’Italiano digitato, si semplifica, mettendo nel calderone le abbreviazioni artificiose (e fastidiose), inutili tecnicismi e anglicismi esasperati. Rispetto alla media europea, noi italiani utilizziamo molto poco Internet e moltissimo i social network”.

Il linguaggio politico è pieno di parole straniere. Sono termini di passaggio, di breve durata, oppure rimarranno per sempre nella nostra lingua?

“Credo che la contaminazione dell’Italiano, di termini appartenenti ad altre lingue nell’uso ormai comune dei politici nostrani, può rappresentare un arricchimento nell’internazionalità di certe espressioni. A parer mio, l’uso di alcune parole straniere danno il senso della universalità. Ma la deriva, specie dell’anglicismo, rischia di sostituirsi pericolosamente a quella lingua colta che è l’Italiano, così come dicevo in premessa, spogliandola di un abito elegante e sofisticato. Capita che alcuni giovani della politica, facciano uso di termini, spesso impropri, di licenze angliciste per il solo gusto del sensazionalismo verbale, esasperando quel modernismo linguistico che suscita involontaria comicità. Devo ammettere, seppur per differenti ragioni, che il solo motivo (pensavo non ce ne fossero) per cui sono d’accordo con i sovranisti e I nazionalisti, è propria quella della salvaguardia della nostra lingua. Se le parole straniere rimarranno per sempre nella nostra lingua dipenderà sostanzialmente dalle scelte che verranno fatte in seno alle università nell’esposizione delle materie umanistiche e scientifiche, nel campo della saggistica e narrativa, nelle scuole di formazione politica, appunto. Si rende necessario, inoltre, mutare i programmi delle scuole d’Inglese per l’infanzia. Attualmente, in questi istituti, si dà la priorità assoluta alla lingua inglese, appunto. Proprio come se i bimbi vivessero in luoghi dove l’unica lingua parlata fosse l’inglese. Tutte le materie vengono studiate in quella lingua, mentre quella italiana soltanto in seconda battuta e in taluni casi addirittura in terza battuta. Ne consegue che gli infanti assimilano un’ottima conoscenza della lingua inglese, a discapito, però, dell’Italiano, con notevoli lacune, specie nella grammatica. Sappiamo che l’Accademia della Crusca è impegnata a battersi, senza tregua, per la difesa della lingua italiana e attrezzarla per le sfide del future”.

C’è ancora la possibilità di salvare la nostra lingua, soprattutto in un mondo ormai globalizzato?

“Bisognerebbe non esaltarsi di fronte alla globalizzazione, specie se selvaggia. E’ una sorta di grande illusione, che colpisce anche le lingue e in special modo la nostra. Mi piace riportare qui un vecchio mito in cui la Bibbia era il principale e più autorevole riferimento culturale. Nella Bibbia si legge che la dispersione dei popoli deriva dalla divisione dei linguaggi, a sua volta determinata dalla condanna di Dio per il folle tentativo della torre di Babele. Questo per spiegare, secondo i canoni della religione, la presenza al mondo di tante lingue diverse, in contrasto con l’unica lingua anteriore alla cacciata dal Giardino dell’ Eden. La presenza di tante lingue era vista come qualcosa di dannoso, proprio in quanto effetto di una punizione divina. La pluralità di lingue, non edenica, non favorisce l’illusione dell’universalismo. Anche i miscredenti e gli scettici devono farsene una ragione”.

Sergio Barletta immortalato mentre segue l’informazione in Tv nel lungo periodo di clausura forzata per l’Emergenza Coronavirus

L’Italiano in Europa è poco utilizzato. Perché? Dipende dal dominio incontrastato e vista la Brexit britannica a questo punto anche ingiustificato dell’Inglese?

“La storia ci insegna che le lingue sono il frutto di conquiste ed espansioni territoriali, affermatosi seguendo le armi e gli eserciti. Il colonialismo ne è la rappresentazione più evidente. E indubbio che senza il colonialismo l’Inglese non sarebbe la prima lingua al mondo. L’Italiano in Europa è poco utilizzato, perché non c’è mai stato proprio un impero italiano, tranne quel breve periodo (meno male) tragico e meschino allo stesso tempo che ebbe il suo inizio nel 1936 fino al termine della Seconda Guerra Mondiale. L’unico nostro impero è legato al Latino, frutto del potere di Roma, padre pure delle altre lingue romanze come il Francese, lo Spagnolo, il Portoghese e il Rumeno, che gli davano un’origine comune. Attualmente, l’Inglese è una delle lingue ufficiali del Parlamento Europeo, insieme al francese e al tedesco. Alla luce della Brexit e del fatto che almeno per il momento non si fanno funzionare le armi muovendosi con gli eserciti se ne avessi l’autorità e il prestigio suggerirei agli europarlamentari europei, non solo italiani, di sopprimere la lingua inglese, per far posto a quella più colta e affascinante, che è la lingua italiana”.

Torniamo a casa nostra e parliamo di dialetti. Sono ancora un patrimonio del nostro Paese e della sua cultura?

“Fermo restando le lingue di minoranza, riconosciute dalla legge o meno, la varietà italiana si è espressa da secoli nei dialetti, che sono un patrimonio straordinario del nostro Paese. Succede che nell’ambito territoriale di uno specifico dialetto si insinuano varietà diverse, con un diverso rango sociale e una tradizione differenziata. Certamente furono molto parlati, nel tempo in cui l’Italiano si conosceva pochissimo e non si parlava mai. Andrea Camilleri manifestò tutto il suo entusiasmo (mi giunge anche la soddisfazione tua, esimio Ermanno, che hai le stesse origini di Camilleri) quando apprese che i primi testi in volgare italiano e la prima scuola poetica italiana, furono quelli di Federico II di Svevia (“stuper mundi”), in volgare siciliano, seppur ingentilito di modelli poetici provenzali. I dialetti vanno visti come una parte della tradizione letteraria nazionale. Mi vengono in mente quelli più ricchi di letteratura, come il napoletano, il siciliano, il veneziano, il milanese, il romanesco. Però non solo ricchi di letteratura nel senso stretto del termine, ma di composizioni di testi musicali fondati sui valori della parola dialettale. Senza il napoletano sarebbe esistita “O sole mio”? Oppure il siciliano “Sciuri sciuri”?, il veneziano “El gondolier”? E ancora “Mia bela madunina”, il romanesco “Er barcarolo”? Il grande musicista e attore milanese Lorenzo Castelluccio ci fa sapere che “O mia bela Madunina” è stata composta nel testo e nella musica, in quanto esisteva “O sole mio”; egli sostiene che il testo sia una risposta e quello del brano napoletano e Giovanni D’Anzi, che del brano milanese ne è l’autore, avrebbe modulato l’ armonia sulle note di “O sole mio” consapevolmente. Uno scambio culturale a tutti gli effetti, proprio come due lettere in poesia o lo scambio di opinioni impresse su una sola tela, come hanno fatto Salvator Dalì e Marcel Duchamp. Continuando nel campo dell’arte, possiamo dimenticarci dell’esaltazione teatrale con i testi dialettali di Basile e Goldoni? I dialetti sono sicuramente una ricchezza linguistica italiana, ma ritengo che non debbano sostituire in tutto e per tutto la lingua madre”.

Si parla ancora il milanese qui da noi, a tuo avviso? Senti ancora qualcuno parlare in dialetto?

“Mai potremmo affrontare un discorso serio sulla letteratura della prima metà dell’Ottocento senza fare riferimento a Carlo Porta, il quale ebbe il merito e l’intuizione di dare voce a personaggi popolari della plebe Milanese. Il meneghino, mutuato dalla maschera teatrale milanese, purtroppo, negli ultimi tempi viene contaminato da anglicismi e parole non indigene, che ne fanno perdere, seppur in parte, il suo fascino antico. Si dice, infatti, che quello milanese sia il dialetto più mutante in assoluto. Oggi, sostanzialmente, il milanese non si parla più. Le nuove generazioni sono portate ad esperienze linguistiche che guardino alla internazionalità. Il processo digitale, poi, crea relazioni a livello planetario e pertanto il meneghino resta orfano dei suoi parlatori”.

Insomma, Sergio, per concludere: quale sarà il futuro della lingua italiana?

“Abbiamo citato Pasolini e la sua profezia e mi piace finire la nostra intervista proprio con lui, ricordando che negli anni ’60, nel pronunciare un discorso letterario, anticipava in maniera clamorosa la nascita di un nuovo italiano nazionale. Un italiano “tecnologico”, che si sarebbe sviluppato nei centri di elaborazione linguistica del Nord Italia, il luogo di maggiore concentrazione industriale. La nuova lingua “neocapitalistica”, con i caratteri della “comunicazione”, a discapito della “espressività”. Contro la bellezza linguistica, l’armonia del lessico e la magnificenza poetica. Contro la lingua nobile per antonomasia”…

Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)