La vita agra di Luciano Bianciardi a Milano, tra solitudine, finzione e riconoscenza

Un altro grande personaggio della Letteratura Italiana è legato alla città di Milano: Luciano Bianciardi.
Nato a Grosseto nel 1922, si è trasferito a Milano nel 1954, lasciando la moglie e il figlio nella terra natia, per partecipare alla creazione di Feltrinelli.
Anarchico, ribelle, controcorrente, sarcastico, Bianciardi iniziò a conoscere una città che gli andava stretta, in tutti i sensi: dormì in un albergo a Porta Venezia, poi in una pensione in Via Solferino, in un’altra pensione in Piazza del Duomo, passeggiava nel quartiere di Brera. Il suo rapporto con la città divenne conflittuale: “A Milano non ho amici, sono stato solo fin dal primo momento. Quando ho avuto bisogno nessuno mi ha dato una mano, e tutto questo credo mi abbia cambiato. Mi sono fatto duro, non amo più la compagnia del prossimo, e sento che l’antica vena ironica sta diventando cattiveria. Per questo amo tanto sentir parlare di Grosseto…”
Quella che vive Bianciardi è la Milano del boom, ma l’autore sembra voler vedere (o farci vedere) quasi esclusivamente il lato negativo: è tutto finzione, sfruttamento, cinismo, velocità, superficialità, inesistenza dei rapporti umani; tutto gira attorno al lavoro, alla produzione. Un anarchico come lui, non può che soffrirne. Ma era davvero una città così negativa per Bianciardi? O nella sua La vita Agra ci ha solo voluto far vedere ciò che per lui era un male da curare?
E’ sufficiente vedere e ascoltare qualche intervista rilasciata dall’autore (su youtube, ad esempio) per capire e percepire un sentimento di affetto presente nei suoi occhi, mentre attraversa le vie della città a lui care, ricordando alcuni momenti e luoghi, soprattutto del quartiere Brera: è come se si fosse ritrovato in una città a lui ostile, ma avesse nello stesso tempo trovato all’interno di essa una tana in cui rifugiarsi.
La sua più importante opera, come ho appena accennato, è la Vita Agra, romanzo nato con l’intento di dar fastidio, proprio perché voleva far emergere con prepotenza i lati negativi della Milano del boom economico; ma, dopo la pubblicazione, Bianciardi rimase deluso: “Avevo scritto un libro incazzato e speravo che si incazzassero anche gli altri. E invece è stato un corteo di consensi, pubblici e privati, specialmente a Milano.”

La lettura di questo romanzo è stata piacevole e particolare, sono pagine dense di idee, pensieri, punti di vista che potrebbero fare nascere discussioni infinite se si stesse seduti a un tavolo con l’autore; credo, anche, che a un milanese doc, orgoglioso e innamorato della sua città, potrebbe a tratti anche dare fastidio il sentimento di insofferenza verso Milano che fuoriesce in alcune parti del testo.
Questi i miei appunti di lettura de “La vita Agra”:

  • Johann Christoph Adelung: linguista e poligrafo tedesco.
  • Fricativa dentale: consonante presente in alcune lingue. Nella lingua italiana è presente solo come allofono regionale, presente nella toscana. (θ)
  • Il ritmo della scrittura di Bianciardi è molto simile a quello che aveva nella sua parlata.
  • Alcuni luoghi sono il Caffè della Braida e delle Antille. Nel romanzo, ambientato a Milano e più precisamente nel quartiere di Brera (luogo in cui Bianciardi ha vissuto), i nomi dei luoghi sono spesso storpiati (Braida = Brera; via Adelantemi = via Fiori Oscuri.)
  • “Era una strada tranquilla e tutta nostra; il traffico quasi non ci azzardava, ma anche in via della Braida, che pure è centrale e frequentata, le auto sembravano riconoscere che questa era zona nostra e rallentavano più del dovuto, e i piloti non s’arrabbiavano né facevano le corna se un pedone uscito dal caffè delle Antille traversava senza guardare, obbligandoli a una secca frenata. […] Ci abitavo anche io, poco oltre l’incrocio, dove via della Braida, pur restando identica per larghezza e colore, cambia nome, ne prende uno risorgimentale, a ricordo della campagna del ‘59, quando vinsero i francesi.” (la via dal nome risorgimentale è l’attuale via Solferino)
  • Giurisdavidismo: movimento religioso fondato da Davide Lazzaretti negli anni settanta del XIX secolo, attivo fino al 2002.
  • Bianciardi era un appassionato di Pelota. Milano era uno dei pochissimi luoghi in cui era possibile assistere alle partite di questo sport.
  • Inizialmente Bianciardi divideva il suo appartamento “al numero otto” con un fotografo.
  • Il romanzo è autobiografico.
  • Melletta: melma, fanghiglia, acqua torbida e fangosa.
  • Bianciardi ha un’ironia pungente, sarcastica, a tratti provocatoria, che a volte mi ricorda vagamente quella fantiana di Arturo Bandini.
  • “La missione mia, di cui dicevo pocanzi, era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente.”
  • Diaccio: freddo, ghiacciato.
  • “ << E allora cosa dobbiamo fare? >>
    << Come, lo chiedi a me? Mi sembra chiaro: condurre insieme la lotta comune, giorno per giorno. Eh, se tutto si risolvesse con uno scoppio, sarebbe comodo. L’epoca degli anarchici è finita, tu lo sai meglio di me, storicamente superata. Del resto i colpi di mano isolati non hanno mai dato nessun frutto. Oggi la lotta è delle masse. In parlamento, sui luoghi di lavoro, ciascuno al suo posto. >>”
  • Che brutta parola “Ripresentificabile”.
  • Il lavoro non deve togliere il tempo da dedicare alle nostre passioni, relazioni sentimentali comprese.
  • “E a guardare bene, questo trasloco in periferia, nonché allontanarci, ci avvicinava alla città. Finché fossimo rimasti nell’isola attorno alla Braida del Guercio, della città poi avremmo visto soltanto una fettina esigua, atipica, anzi falsa; avremmo visto, daccapo, pittori capelluti, ragazze dai piedi sporchi, fotografi affamati, ma non la città.”
  • “…adesso capivo che sarebbe stato inutile e sciocco far esplodere io da solo – o con l’aiuto di Anna e di pochi altri specialisti – la cittadella del sopruso, della piccozza e dell’alambicco. No, bisognava allearsi con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla, amarla, e poi un giorno sotto, tutti insieme.”
  • “E’ difficile riconoscere una faccia, anche se fai tutti i giorni, per anni, la solita linea. Questo anche perché si somigliano TUTTI, i passeggeri del tram. Ci sono tre tipi fondamentali di faccia: la faccia del ragioniere in camicia bianca, con gli occhi stanchi di sonno già alle otto del mattino, talvolta i baffetti, sempre due solchi profondi che partono da sotto le occhiaie bluastre e arrivano agli angoli della bocca; poi c’è la faccia disfatta della casalinga, che va al mercato lontano perché si risparmia un po’ di dané, e nonostante l’ingombro della sporta piena è sempre la prima a salire; infine c’è la dattilografetta con le gambette secche, che ha una faccia smunta, stirata, alacre, color della terra, color del verme peloso che striscia sulle foglie dei platani.
    Non si vede altro. Certe magnifiche ragazze le incontri solo dopo le cinque del pomeriggio, a piedi nelle vie del centro: hanno le gambe lunghe e tornite, un incarnato di porcellana, il sedere alto e tondo, superbo. Ti chiedi come facciano a ritornare a casa, perché sul tram non le incontri mai. Ma forse hanno qualcuno che le riaccompagna in macchina, e così fanno una vita sempre divergente dalla tua.”
  • “La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene. E la lotta politica, cioè la lotta per la conquista e la conservazione del potere, non è ormai più – apparenze a parte – fra stato e stato, tra fazione e fazione, ma interna allo stato, interna alla fazione.”
  • “Il dirigente destinato a fare carriera ha miriadi di idee, anzi le ha tutte, quanto più contraddittorie tanto meglio, perché contraddittorio e capriccioso è il padrone. Dirà il questo e il non-questo, il quell’altro e poi il suo opposto, tutto filato, senza scarti né pause.”
  • E’ importante, se non fondamentale, avere una persona accanto durante i momenti più difficili.
  • In seguito, Bianciardi si trasferirà in via Meneghino 2.
  • “[…] e così viene fuori l’uomo-massa e la prostituta moderna, nelle sue varie sottospecie cortigiana, mondana, amante, ganza, mignotta, zoccola, druda, ragazza-squillo, passeggiatrice, giù giù fino alla battona, alla barbona, alla spolverona e alla merdaiola, infima categoria che annovera le pestatrici di cacche canine negli stradoni bui di periferia, a notte.
    Mai puttana però, secondo vorrebbe la parola antica che indicava, quando c’era, il mestiere. Non a caso la donna innamorata, accaldata, linfante, si glorierà di quest’antica parola corporativa e ti dirà, nel momento supremo, fastigioso, quando si allentano i nessi del vivere secondo paradigma – e allora i simboli svaniscono lasciando soltanto la realtà reale – e ti dirà di sentirsi puttana.”
  • Bianciardi definisce Milano una “tetra città”.
  • Come vede il miracolo italiano: “Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda.
    A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera.
    Io mi oppongo.”
  • Bianciardi ci descrive un suo mondo migliore, ma non mi convince: lo trovo utopico, troppo immaginifico, non realizzabile, affascinante sì, ma sotto diversi aspetti peggiorerebbe le condizioni della nostra vita. Il suo è un “Neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio”.
  • Espettorazione: espulsione del secreto bronchiale.
  • La città di Milano non viene mai nominata: non viene mai spesa una parola positiva nei suoi confronti. Ci viene presentata come frenetica, agra, tetra, buia, fredda. A chi viene a Milano per motivi di lavoro (quindi per campare) e ne risalta solo le qualità “negative”, mi viene sempre da chiedere: ma è così Milano o chi ci vive? E chi ci vive, sono milanesi o persone provenienti da tutte le parti d’Italia? Il problema è Milano/i “milanesi” o lo stile di vita metropolitano, caratteristico di tutte le metropoli mondiali? E soprattutto: se non piace, perché rimanerci? Perché criticare un piatto in cui si mangia, se gli altri piatti sono più “belli” esteticamente ma offrono due briciole di pane?
    Di Bianciardi però c’è un nascosto affetto verso questa città, soprattutto lo si può notare nelle sue interviste. Voleva bene alla sua Brera, ai suoi negozi, ma voleva mostrare un lato che a lui non piaceva, il suo è uno sfogo politico, di ideali. Milano è lì, ma non ne ha colpe. Il problema, forse, non è la città di Milano. E’ un problema e un disagio interiore dell’autore, che si lamenta di scarsa socialità ma è il primo, in molti casi, a isolarsi e a non volerla.

A chi consiglio la lettura:

  • Anarchici, persone di sinistra.
  • Immigrati a Milano.
  • Disoccupati e lavoratori precari.

Alberto Fumagalli (scrittore milanese)