Stefano Ferri: “In una città aperta come Milano è più semplice essere crossdresser che altrove”

Incarna, tra molte gioie e qualche grande dolore, la figura del crossdresser. E ormai è diventato un personaggio pubblico, conosciuto e molto amato in tutto il mondo. Stefano Ferri è un uomo meraviglioso. Non saprei in quale altro modo definirlo, se non con l’aggettivo a me più caro, quando devo esprimere la bellezza che la vita ci riserva. Giornalista, scrittore e comunicatore di professione, nel senso più ampio del termine. Milanese doc, 54 anni da compiere a giugno, sposato, una figlia di 11 anni, Emma, che è innamorata pazza di lui, dopo essersi inizialmente (e naturalmente) chiesta perché suo padre si vestisse da donna. “Sai, Ermanno caro, ogni crossdresser ha una sua storia e ogni crossdressing una sua causa”, mi rivela Stefano. “I vestiti sono la buccia, la superficie dell’essere umano, non mostrano nulla di quello che c’è dentro. Allora non esiste una comprensione universale, bisogna procedere caso per caso e nel mio gli abiti da donna sono l’unica chiave all’integrazione fra la mia parte maschile e quella femminile. Che in me, per ragioni legate alla mia infanzia, sono sempre rimaste scisse”.

Mi spieghi, in sintesi, com’è avvenuto questo affascinante e difficilissimo percorso umano?

“Il cammino è stato lunghissimo e drammatico. Se c’è una lezione che ho appreso è quanto l’uomo, sicuramente da questo punto di vista, sia prigioniero di condizionamenti esiziali. Ho passato l’inferno per cosa? Per indossare un paio di tacchi o una gonna. Se ci pensi, è assurdo. La verità è che nessun maschio oggi darebbe spago immediato a desideri come i miei, perché tutto quello che è femminile è considerato tabù da una società ancorata ai pregiudizi del patriarcato. Se da ragazzo mi fossi lanciato nel crossdressing, come già desideravo, la mia sarebbe stata una vita meravigliosa. Invece mi reprimevo e le persone represse diventano pericolose perché cercano la vendetta. Presi in mano la mia felicità soltanto a 29 anni e ce ne misi la bellezza di altri 14 per effeminare il mio guardaroba maschile e sostituirlo con uno integralmente femminile. Ovvio che vestire questi panni significa vivere una vita totalmente diversa da quella degli altri uomini. Ho avuto e avrò sempre le mie difficoltà, ma grazie ai miei abiti ho avuto e ogni giorno ho la prova incontrovertibile che la maggioranza del genere umano è composta da brave persone, ovunque nel mondo. E va da sé che in una città aperta come Milano è più semplice essere crossdresser rispetto ad altrove”.

Laureato in Scienze Politiche, Stefano Ferri ha fondato, diretto ed è stato collaboratore di numerose riviste specializzate in eventi di comunicazione. Ha ricevuto nel 2004 il Premio Hilton per il Giornalismo Business e nel 2006 il Premio Italia for Events per la Stampa Turistico-Congressuale. Da alcuni anni è attivo nel sostegno ai diritti civili, dando pubblica testimonianza, in televisione e sui giornali, della propria condizione, appunto, di crossdresser. Finora ha scritto tre romanzi: I primi due (Seppellitemi in cielo e Il bambino che torna da lontano), editi da Robin Edizioni rispettivamente nel 2013 e nel 2016, sono stati tradotti in Inglese (la sua seconda lingua) e distribuiti in quattordici Paesi. Il terzo (La ricompensa), è stato pubblicato alla fine dello scorso anno dalla casa editrice francese LuxCo Editions.

La copertina de “La Ricompensa” (LuxCo Editions, 2019), il nuovo libro di Stefano Ferri

“Quando scrivo romanzi gioco in casa”, rivela Stefano. “I miei protagonisti, infatti, sono sempre uomini (lungi da me l’idea di mettermi nella testa di una donna, scriverei solo stupidaggini) e lo sfondo è sempre Milano o al limite la Lombardia. Parlo soltanto di quello che conosco, però nel caso di questo mio terzo libro il legame con la città e con la regione è intimo e deterministico, sia perché la storia non è di fantasia ma realmente avvenuta e sia perché, per ragioni che non svelo, non avrebbe potuto svolgersi se non qui. La trama è ambientata nel Medioevo contadino lombardo, terra povera, ignorante e bigotta, ma anche piena di voglia di fare. Il protagonista è Guglielmo, un contadino innamorato della propria famiglia, che una sera torna a casa e si trova di fronte a una scena che gli cambierà per sempre l’esistenza: i bambini disperati in lacrime e la moglie rantolante in una pozza di sangue. Cerca di soccorrerla e curarla, ma la medicina dell’epoca nulla può contro il progredire del male. Allora segue i consigli degli amici (veri o presunti) e soprattutto prega, rivendicando presso Dio la sua posizione di uomo giusto, fedele, dedito al lavoro e all’educazione dei figli. E gli chiede la cosa che dà il titolo al romanzo: la ricompensa, appunto. La vicenda, come dicevo, è reale e racconta (posso aggiungerlo senza anticipare troppo) un aspetto tanto sconosciuto quanto luminoso del contributo che la nostra città ha dato al progredire dell’Umanità”.

Ormai, anche se ancora giovane, sei uno degli ultimi milanesi doc che vivono e lavorano nella nostra città. Sei la persona ideale, quindi, a tracciarne un profilo. Com’è cambiata e come sta cambiando Milano, secondo te?

“Milano è sempre stata la città più europea d’Italia, l’unica con una vocazione realmente internazionale. E nel dirlo, si badi bene, non sto disprezzando le altre, ma semplicemente ritagliandole un ruolo. Ogni nostra città ha una caratteristica: Roma è Roma ed è inutile parlarne, Venezia è un luogo unico sulla terra, Firenze è la culla del Rinascimento e così via. Ecco, Milano è sempre stata la nostra New York, anche quando di grattacieli ne aveva meno di oggi. Lo spartiacque è stato senza dubbio Expo 2015, la vera fortuna della nostra città: le ha dato piena notorietà internazionale (oggi tutti sanno indicarla sulla cartina), finanziamenti, progettualità, idee, persino primati mondiali (mi viene in mente il Bosco Verticale, il grattacielo più bello del pianeta). Sono nati nuovi quartieri (pensiamo a City Life o a Piazza Gae Aulenti), si sono moltiplicate le imprese, sono ripresi gli investimenti. Un positivo effetto domino che però nulla avrebbe potuto se non sullo sfondo di quello che il milanese è, ossia l’incarnazione dell’operosità. Questa è la costante, ed è anche la garanzia per l’avvenire”.

Tu lavori da molti anni nel mondo del marketing e della comunicazione, due osservatori privilegiati sulla città. Qual è, a tuo avviso, lo stato dell’arte, riguardo a questi ambiti cittadini? E quali contributi ha portato, secondo te (se lo ha portato) lo sviluppo dei social network?

“Penso che siano davvero privilegiati e non da ieri. Fin da bambino seguivo le vicende della pubblicità, vera sintesi di marketing e comunicazione, avendo come padre un fotografo pubblicitario. E ricordo come all’epoca notassi che tutti (o quasi) i Caroselli erano concepiti e realizzati qui. Il fatto è che Milano sta all’Italia come Londra sta al Regno Unito: è una città che per innumerevoli ragioni storiche e di mentalità ha preso una strada tutta sua, rispetto al resto del Paese. Nei decenni, questo gemellaggio ufficioso quanto evidente ha nutrito il nostro marketing del mix, tipicamente anglosassone, di creatività e sales management che ne fa oggi un territorio di avanguardia artistica e tecnica. Quando ricevo amici in visita qui e li accompagno in giro per Milano, sforzandomi di vedere la città con i loro occhi e non con i miei, resto basito dalla quantità innumerevole di sperimentazioni che fioccano ovunque, sia nell’arredo urbano (un esempio su tutti: Piazza degli Affari) che nel concept dei locali, persino nell’arte da strada. E in quanto ai social network, beh, scuoto un po’ la testa. Hanno cambiato il mondo, non solo una città, favorendo per loro natura l’interconnessione senza barriere, però sinceramente non vedo come possano portare a un cambiamento nel marketing. Possono semmai integrarlo, ma fino a che punto è ancora tutta da vedere. Un prodotto o un servizio deve prima affermarsi nel mondo reale e solo di riverbero può attingere alla social popularity. Chi nasce sui social resta fine a se stesso”.

Un’altra bella immagine di Stefano Ferri, con alle spalle la skyline di Milano

Dall’Expo in poi (lo dicevi prima) Milano è oggettivamente cambiata. E’ migliorata ulteriormente l’offerta culturale ed è letteralmente esplosa quella turistica. Per contro, secondo me, è peggiorato il tessuto sociale: complice anche la crisi economica che continua a mordere, risulta schiacciato verso il basso. Qual è la tua opinione?

“Come tutte le grandi città Milano polarizza ed esaspera le contraddizioni sociali, per cui non mi sorprende che il declino della classe media sia più visibile da noi che altrove. Ma ciò non significa che questo schiacciamento verso il basso sia solo qui e nemmeno che sia soprattutto qui. Vuol solo dire che qui è più visibile. Però non mi preoccuperei. Spesso ci si dimentica che cosa Milano rappresenta per l’economia internazionale: è la capitale mondiale del Pret-à-porter, non so se mi sono spiegato. Una città così avrà sempre le risorse per rialzarsi e rimettersi a correre meglio di prima”.

Che opinione hai del fenomeno dell’immigrazione a Milano?

“Una città con una vocazione internazionale non può che attrarre chiunque e da qualsiasi latitudine. Non sarebbe Milano senza immigrazione, ricordiamolo.
E a chi ha paura di questo fenomeno dico: non è dall’immigrazione che penetra il terrorismo (che peraltro in Italia non ha ancora colpito, grazie alla nostra rete d’Intelligence, la migliore del mondo), ma dai buchi che noi stessi creiamo nella nostra rete di valori. I terroristi non attecchirebbero in Europa e anzi verrebbero conquistati dai nostri valori di libertà ed emancipazione se ci trovassero uniti e coesi a difenderli, cosa che purtroppo non capita. Le discriminazioni sono all’ordine del giorno in tutto il mondo occidentale. Ogni volta che una donna viene pagata di meno a parità di incarico, ogni volta che un omosessuale viene discriminato, ogni volta che qualcuno cambia marciapiede perché incontra una persona di colore, ecco, è lì che il terrorismo s’annida e germoglia. Va detto che a Milano queste cose avvengono meno che altrove e questa è una delle principali ragioni della bellezza della nostra città”.

Il 2020, a Milano, è stato proclamato “L’Anno della Donna”. La ritieni una città, appunto, a misura di donna? Ambiti come la cultura, la sicurezza e il lavoro privilegiano la condizione femminile?

“Qualcuno mi contesterà, ma io credo che Milano sia donna (o femmina, come dici tu) e che il mondo oggi sia tutto a misura delle donne che valgono. Quando lavoravo da dipendente ho sempre avuto donne a dirigermi. Da consulente ho collaborato con un centinaio di aziende e i miei clienti sono quasi sempre state donne. La presidente del Senato (seconda carica dello Stato) è una donna. La presidente della Consulta (quinta carica dello Stato) è una donna. La presidente della BCE è una donna. La presidente della Commissione europea è una donna. Il premio Nobel per la letteratura 2019 è andato a una donna. Abbiamo donne imprenditrici, ministri, deputate, presidenti di CDA, intellettuali, giornaliste e direttrici di testata. E così via all’infinito. Dopodiché, certo, devono combattere i pregiudizi. Ma io forse no? Non ho pregiudizi contro cui combattere? La vita è una lotta, mio caro, come sai bene anche tu. I colpi bassi purtroppo nella maggior parte dei casi sono ammessi. Però chi vale, alla lunga, emerge”.

Per concludere, Stefano: Come vedi il tuo futuro e quello di Milano? Starete ancora insieme?

“Milano ha un futuro luminoso, di crescita continua, sospinta dall’operosità dei suoi cittadini e da una cultura che attinge ai valori del lavoro e all’internazionalità. Quanto a me, senza Milano semplicemente non posso vivere. Qui sono nato e qui morirò. Questo non vuol dire che non possa dividermi fra più città. Per esempio, oggi vivo e lavoro fra Milano e Roma e un domani ho la sensazione che sarò più a New York che altrove. Ma le mie radici sono milanesi e tali resteranno”.

(Ermanno Accardi, giornalista e scrittore)