In principio c’era Bettega e Bettega era presso Causio e il Barone, insieme a Pietruzzu Anastasi, erano -per me- quasi delle divinità mitologiche…
Negli anni settanta in via Concilio Vaticano II, a Quarto Oggiaro, si giocava a pallone dappertutto: nei cortili, nonostante il divieto della signora Pina – la custode – che minacciava di sequestro di persona chiunque si aggirasse nei giardinetti del condominio con un pallone in mano;[1] in strada, specie nei pressi della pericolosa “chicane” che consentiva agli autoveicoli e alla 57 della linea Q.O.-Cairoli di compiere il percorso a ritroso verso la famigerata via Lopez (Hic sunt leones!); davanti alla panetteria dei “picari” irpini Mimmo e Saverio e, in buona sostanza, ovunque ci fosse uno spiazzo disponibile. Se non si disponeva di un pallone – preferibilmente di cuoio o di gomma dura – ci si arrabattava con qualsiasi oggetto sferico utile a disputare incontri di calcio che si protraevano – come vuole la vulgata – sino a tarda sera.
In particolare, il luogo deputato per effettuare le nostre interminabili partite era la Cava Cabassi,[2] un’orrida e selvaggia voragine color biscotto piena di sterpi e rovi che costeggiava – per un lungo tratto – i binari delle Ferrovie Nord. Come in uno di quei film di Sergio Leone sul Far West, le nostre partite erano spesso interrotte dallo sferragliare dei vetusti trenini delle Nord che si dirigevano, dopo aver caricato alla fermata di Quarto pendolari, studenti, pensionati, borseggiatori e postulanti vari, verso la stazione di piazzale Cadorna.
Nelle immediate adiacenze delle cava, c’era una colata in cemento contornata da una recinzione di ferro colorata di nero e blu (forse da un interista), ben presto ossidata. Issate a forza, alle due estremità della piastra, facevano bella mostra di sé due strutture metalliche contorte che sorreggevano altrettanti canestri da basket sprovvisti di retìna da tempo immemorabile. Questo improvvisato campo di pallacanestro era considerato – da tutti i ragazzi di Concilio – il tempio del calcetto, meglio di Wembley, del Maracanã di Rio o del Piccolo San Siro.[3]
Sulla piattaforma in cemento, dotata di fatiscenti porte di football e posta in prossimità di un “drago verde”[4], capace di dissetare all’occorrenza gli interi abitati protostorici di Vialba e Musocco, si consumavano – ad opera di équipes multietniche – accesissime partite di calcio. Oltre ad essere interminabili, questi accaniti confronti calcistici impegnavano tutti i contendenti sino allo stremo delle forze (tipo Spartani vs Ateniesi) o sino al calare – su Quarto – delle “prime ombre della sera”, come diceva la voce fuori campo del cartoon dedicato – negli anni Settanta – a Nick Carter. La regola aurea – mutuata forse dal poker – imponeva, infatti, il divieto assoluto di abbandono del rettangolo di gioco. Tale norma restava in vigore anche nel caso in cui una delle due compagini stesse vincendo di larga misura. Ciò serviva per non dare modo agli avversari di sostenere che la sospensione del gioco avesse interrotto un’ipotetica ed incipiente rimonta e -soprattutto- per evitare che – astutamente – il leader carismatico (sempre in agguato stabat lupus) della squadra perdente, potesse in qualche modo avanzare dubbi sulla vittoria conseguita con grande sacrificio (graffi, lividi, ematomi e ginocchia sbucciate, in primis) e supremo sprezzo del pericolo (dribblando bronchiti invernali e insidiosi colpi di sole). Per la precisione, ciò che nessuno di noi voleva sentirsi dire, al termine di due o tre ore di partita giocata lealmente ma senza esclusione di colpi, era la seguente frase: “Avete caga (di continuare) eh?”.
Ciò, infatti, ci obbligava a tornare sui nostri passi con l’incombente necessità di realizzare, al più presto, un nuovo goal che ribadisse definitivamente la superiorità tecnica della nostra compagine.[5] Al contrario, cioè nel malaugurato caso in cui la squadra avversaria cominciava la “remontada”, allora iniziavano i guai. La partita, che sino ad allora si era trascinata stancamente verso l’epilogo, improvvisamente si rianimava, le entrate divenivano più cattive, gli sfottò ( “driza la gugia!”, nel caso di un marchiano errore di mira), lasciavano il posto ad ingiurie più grevi e per lo più immotivate (“Va’ffanculo a’ mammeta e int’a a’ fessa e’ soreta!”), i mille dialetti neolatini della suburra si miscelavano in un patois incomprensibile, grattando via l’esile patina di italiano appreso alla scuola di via Graf e rivelando così le originarie abitudini linguistiche dei vari giocatori, nonché la loro provenienza geografica. Le spinte, le provocazioni verbali (“Stai all’occhio brutto pirla!”; “Uè guagliò vattinne!”; “Statte accuort ricchione!”), i colpi bassi, gli sgambetti, le trattenute plateali e le gomitate, gli accenni di rissa -intercalati da insulti “glocal” (global-local) in pugliese, siculo-calabrese, napoletano, veneto, lumbard- surriscaldavano sempre più l’ambiente, sino a che non avveniva l’irreparabile. Approfittando malignamente di una palla vagante in area, un giocatore della squadra in svantaggio -lamentando un inesistente contatto- franava pesantemente al suolo o, in alternativa, sbraitando scompostamente invocava il penalty gridando: “Aohhh cazzominchiaaaa, hands, fallo di mano, rigore!!!!”. Dopo un lungo istante di smarrimento collettivo, una volta esaurite le proteste di rito contro il simulatore e recuperato dalla cava il pallone imbrattato di fango allontanato da un difensore a scopo dimostrativo, si faceva largo sgomitando prepotente tra la folla inferocita, Mamone Ciro Salvatore da via Lopez, detto “Panza i canigghia”.[6] Digrignando i denti grigiastri e tenendo ben stretto tra le mani l’oggetto del contendere, egli si avvicinava con ampie falcate al presunto dischetto del rigore mormorando in perfetto giargianese: “Lete a’nanz barlafüs!” .
Dopo aver minacciato a più riprese (“Si me fai arraggiare te fazzu abballare supra ‘nu chiovu”), il nostro baldanzoso e improvvisato portiere (“ Ghe pensi mi”, “Lo paro io ‘sto cazzo di rigore”, aveva affermato ottimista il Fumagalli Riccardo detto “Schizzo” per via dei suoi imprevedibili sbalzi d’umore), “Panza i canigghia”, individuo dotato di pessima reputazione e di un’incredibile prestanza fisica (qualcuno giurava di averlo visto sollevare -a mani nude- una 126 al solo scopo di facilitare il parcheggio di suo cugino Robertone – per gli amici Vitellozzo – qualcun altro lo aveva intravisto malmenare a scuola -perché rifiutato- due nostre avvenenti compagne -Ermelina e Marilena- per cui aveva perso la testa), si avventava sul pallone tra gli improperi farneticanti e le grida di incitamento delle due fazioni avverse. Espressioni e frasi di incoraggiamento come “Salvatore, tira la sabongia!!!”; “Salvatò, tiraci una minnella nel sette a quella recchia di gomma”; “Salvo spaccaci le corna con una cannellata”, si alternavano a fischi, urla, grida di scherno e preghiere rivolte all’Altissimo, provenienti dall’altra ala dello schieramento.
Violenta e improvvisa, la fiocinata di Salvo colse del tutto impreparato “Schizzo” Fumagalli che non fece neanche in tempo – forse per l’eccessiva tensione – ad infilarsi i guanti di lana grezza appena sottratti da un giubbotto appeso alla recinzione. Paralizzato dal terrore e dalla sorpresa, “Schizzo” vide scorrere davanti a sé – nello stesso istante – il pallone calciato brutalmente da “Panza i canigghia” e i fotogrammi della sua vita presente, passata e futura macchiati indelebilmente da una così grave colpa.[7]
Fortunatamente Eupalla,[8] o meglio Dispalla, divinità volubile che “governa le sponde e gli spigoli, che con sghemba e beffarda mano fa impazzire le traiettorie e sbilenca le parabole, che annebbia la vista ai portieri e appanna i riflessi ai difensori, che annoda le gambe all’ala in fuga e restringe la rete davanti al centravanti”,[9] quella volta ci diede una grossa mano. La staffilata di Salvo si infranse, infatti, sulla traversa e rimbalzò quasi a metà campo. In quel preciso momento Franchino, un nostro compagno di squadra partenopeo, meglio conosciuto come “U svedese” per via dei lunghi capelli biondi raccolti perennemente in uno chignon, si mise due dita in bocca e fischiò forte decretando, di fatto, la fine delle ostilità e il ritorno a casa di vincitori e vinti.
Certo, nel corso degli anni, partite di questo genere ne giocammo tantissime: cambiarono gli interpreti, i campi di calcetto sabbiosi ed in leggera pendenza cui eravamo abituati divennero sintetici e lisci come tavoli da biliardo, le porte vennero dotate di candide reti, i portieri con addosso delle strane tute intere multicromatiche ora discutevano amabilmente in un italiano forbito (“Prego dopo di Lei, ma si figuri, ci mancherebbe altro”), mentre i calciatori indossavano delle scarpe da calcio dai colori e dai materiali improbabili. Cambiarono, nel tempo, anche i miei idoli calcistici: Michel “Le Roi” Platini, Baggio ed infine Del Piero, presero il posto di Beppe Furino, Longobucco e Cuccureddu… Ciò che però -almeno per me- non è cambiata è la passione che provo tuttora nei confronti del mio quartiere e di questo sport “comunque bello…”.[10]
Ah già, quasi dimenticavo… i miei figli Lorenzo “Lollo” e Gabo detto “El Gato” giocano anche loro a calcio – a Quarto Oggiaro – nel Sempione Half 1919, gloriosa società calcistica giovanile milanese.
Maurizio De Filippis
(Tratto da “E non saprai mai se un ricordo. La meglio Quarto Oggiaro”, edizioni Melquiades, 2012)
La fotografia in apertura dell’articolo è di un tatuaggio eseguito da Davide Andreoli (http://www.italianrooster.it/)