Maurizio Ambrosini: “Siamo una città sempre più multietnica, ma fatichiamo a sviluppare politiche e servizi all’altezza della nuova popolazione urbana”

Quello che colpisce di lui non è soltanto la grande e affascinante competenza nelle sue materie, ma anche la signorile cordialità e disponibilità, l’intelligente ironia (con un pizzico di umorismo, che non guasta mai) e la naturale disponibilità al dialogo, cosa rara, di questi tempi sempre più volgari, in cui i dibattiti sembrano più cruenti combattimenti tra galli. Maurizio Ambrosini, 66 anni, vercellese, è un docente dell’Università degli Studi di Milano (dove insegna Sociologia dei processi migratori) ed è responsabile scientifico del Centro Studi sulle migrazioni nel Mediterraneo di Genova, dove dirige anche la rivista “Mondi Migranti”. Ha al suo attivo, neanche a dirlo, diverse pubblicazioni sul tema. Il suo lavoro più recente, come co-autore, è “Quando gli immigrati vogliono pregare” (Edizioni il Mulino). L’ho incontrato ad un corso di formazione e aggiornamento professionale alla sede dell’ANCI Lombardia (in via Rovello al civico 2), dedicato ai temi del linguaggio dell’informazione riguardo, appunto, all’immigrazione, da dove è partita l’idea di questa intervista milanese…

La copertina del libro “Quando gli immigrati vogliono pregare” (Edizioni il Mulino), di cui Maurizio Ambrosini è co-autore

Professore, pandemia a parte, dall’Expo in poi Milano è cambiata: è migliorata ulteriormente l’offerta culturale ed è letteralmente esplosa quella turistica. Per contro, secondo me, è peggiorato il tessuto sociale: complice anche la grande crisi economica, che fin dal lontano 2008 continua a mordere, risulta schiacciato verso il basso. Qual è la Sua opinione?

“Il mio punto di vista è quello di uno studioso delle migrazioni, che sono un sismografo piuttosto attendibile del funzionamento dell’economia e del mercato del lavoro. Quando un territorio cresce, attrae immigrazione. Quando non cresce più, l’immigrazione non arriva, o cambia destinazione. In Italia, dalla crisi del 2008 l’immigrazione non si è più ripresa, è rimasta stazionaria, malgrado le urla sugli sbarchi. Anche Milano, sebbene più dinamica della media nazionale, non sfugge a questa tendenza”.

In questo difficile e delicato momento politico, economico e sociale il Suo è un osservatorio privilegiato sul mercato del lavoro. Qual è, a Suo avviso, lo scenario attuale a Milano e in Lombardia? E cosa si prospetta per l’immediato futuro?

“Ciò che più mi colpisce è che in questi anni la Lombardia si trova stabilmente al primo posto tra le regioni italiane per emigrazione verso l’estero. Non si emigra più soltanto dal Sud. Noi esportiamo cervelli e, se possibile, importiamo braccia. Abbiamo difficoltà non soltanto a offrire opportunità di lavoro, ma anche e soprattutto lavoro qualificato. Una popolazione lavorativa più selettiva, sostenuta dalle famiglie e dal reddito di cittadinanza, tende a scartare il lavoro pesante e poco remunerativo”.

Non pensa che paradossalmente, in situazioni del genere, si possano creare nuove opportunità lavorative, sia a livello collettivo che individuale?

“Il mercato occupazionale nel 2021 e 2022 aveva lamentato carenza di braccia in alcuni settori, come l’edilizia e i servizi turistico-alberghieri, in vigorosa ripresa dopo la pandemia da COVID-19. Ora la guerra in Ucraina e il rincaro delle bollette ha reso lo scenario più incerto e, secondo diverse previsioni, incline al pessimismo”.

Sempre a proposito di osservatori privilegiati: che opinione ha del fenomeno dell’immigrazione a Milano? Lei è in possesso di dati certificati e senz’altro chiarificatori della situazione attuale…

“A Milano a fine 2021 risiedevano 176.000 cittadini stranieri. In testa alla graduatoria filippini ed egiziani, quasi appaiati, che in entrambi i casi sfiorano le 40.000 unità. Al terzo posto i cinesi, circa 33.000. Siamo una città sempre più multietnica, in cui gli immigrati svolgono funzioni importanti nell’economia urbana e presso le famiglie, ma fatichiamo a rendercene conto e a sviluppare politiche e servizi all’altezza della nuova composizione della popolazione urbana. Basti pensare alle difficoltà che incontrano i mussulmani, anche a Milano, a disporre di luoghi di culto adeguati”.

Maurizio Ambrosini, 66 anni, vercellese, docente di Sociologia dei processi migratori all’Università degli Studi di Milano

Alla luce della Sua enorme esperienza al riguardo, secondo Lei è possibile (oltre che necessario) dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione, a Milano, in Lombardia e in Italia?

“Politiche più razionali dovrebbero partire dal presupposto che non esiste l’immigrazione, come fenomeno globale e indistinto. Esistono tipi diversi di flussi migratori, che richiederebbero politiche mirate. Alcuni sono richiesti dai Paesi riceventi, compreso il nostro: per esempio, infermieri e operatori sanitari, ma sempre più anche medici. Altri sono un investimento: gli studenti, gli operatori economici. Altri ancora sono giustificati dalle pressioni delle imprese alla ricerca di manodopera: i lavoratori manuali. Altri aiutano ad accrescere la coesione sociale e a contenere fenomeni indesiderati: i ricongiungimenti familiari. Per altri ancora, dobbiamo adempiere alle convenzioni internazionali che abbiamo sottoscritto: i rifugiati”.

Proviamo a ragionare insieme ai lettori, che spesso pongono questa domanda: dobbiamo definitivamente rassegnarci a tamponare e contenere solamente gli arrivi o forse è il caso di intervenire in maniera più concreta e selettiva, rendendoci conto, una volta per tutte, che al di là ogni più ragionevole considerazione del fenomeno lo comprende anche un bambino che i due terzi degli abitanti del pianeta non ci stanno non solo in un Continente, ma nemmeno in un solo Paese e figuriamoci in una sola città?

“Non esiste un pianeta che vuole venire in Europa, e tanto meno in Italia. Gli immigrati internazionali, 280 milioni circa rappresentano il 3,6% della popolazione mondiale, una percentuale sostanzialmente stabile nel tempo. La buona accoglienza riservata ai profughi ucraini (circa 160.000) arrivati in Italia in pochi mesi, dimostra che, se vogliamo, siamo in grado di ospitarne molti di più di quanto vogliamo crederne”.

Per concludere, Professore: tutti (o quasi) gli altri Paesi europei e occidentali lasciano aperte le loro frontiere solamente a chi è in qualche modo identificabile, sano di mente e di corpo e senza particolari velleità autonomistiche e di affermazione dei propri valori culturali e religiosi. Esattamente come è avvenuto in passato e come avviene ancora oggi, quando l’immigrazione prende la strada opposta, cioè quando i migranti sono stati e sono, ancora oggi, gli occidentali, ai quali non vengono praticati sconti e trattamenti di favore. Perché in Italia è così difficile ragionare in tal senso?

“Non è proprio così: l’Europa, Italia compresa, ha abolito le frontiere interne e ha consentito una libera circolazione a tutti i cittadini dell’UE. Ha abolito l’obbligo del visto per soggiorni turistici di durata inferiore ai 90 giorni a quasi tutti i Paesi dell’Europa Orientale, oltre al Brasile e ad altri Paesi dell’America Latina. Per contro gli europei occidentali, italiani compresi, possono viaggiare in oltre 180 Paesi del mondo senza obbligo di visto, e in molti Paesi possono insediarsi, praticare eventualmente la loro lingua e religione, e avviare attività economiche. Il diritto di mobilità è distribuito nel mondo in modo molto sperequato, penalizzando soprattutto i cittadini del Sud del pianeta. Noi anche sotto questo profilo siamo dei privilegiati, ma rifiutiamo di rendercene conto”.

Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)

Immagine di copertina tratta da cislbrescia.it