Marco Proietti Mancini: “Milano è una città internazionale che non ha perso umanità. Forse questo ha favorito l’epidemia di Coronavirus, ma altrove le risposte non sarebbero state così immediate”

Dovevamo farci una chiacchierata serenamente sulle nostre città, metterle a confronto come sempre succede tra milanesi e romani, con leggerezza e quel gusto per l’umorismo e l’ironia che contraddistingue questo tipo di dialoghi, che finiscono spesso per riservare la sorpresa (ormai quasi non più tale) di scoprire che gli uni vivrebbero benissimo nella metropoli degli altri e viceversa. E invece con il mio caro amico e collega di scrittura Marco Proietti Mancini ci ritroviamo oggi, sulle pagine di questo blog, ad affrontare innanzitutto un argomento infame, quello dell’Emergenza Coronavirus, del quale avremmo fatto volentieri a meno. “Credo che la vostra attitudine alla socializzazione sia stata la causa principale dell’inizio deflagrante dell’epidemia”, esordisce sospirando. “Credo anche, però, che se questa deflagrazione fosse avvenuta in altre città, anche nella mia Roma, la capacità di risposta e quella di adeguarsi alle regole da subito sarebbero state meno immediate ed efficienti”. Laziale di Subiaco, ma romano di adozione, 59 anni, sposato e con due figli, Marco lavora in una multinazionale dell’Informatica, ma coltiva da sempre la passione per i libri. Oltre a leggerli si è messo pure a scriverli e con discreto successo: per Edizioni della Sera ha pubblicato la trilogia “Da parte di Padre”, “Gli anni belli”, “Il coraggio delle madri”. Con la stessa casa editrice ha realizzato la raccolta di racconti “Roma per sempre”, partecipando inoltre all’antologia “Romani per sempre”, della quale è stato anche curatore. Con “Giubilei Regnani”, invece, ha pubblicato il romanzo “Oltre gli occhi”; con “Historica” “La terapia del dolore” e ha curato e partecipato alla raccolta di tre romanzi brevi: “Storiacce Romane”. Nel 2019, infine, è uscita la sua nuova raccolta di racconti “Non serve nascondersi”, con “Miraggi Edizioni”. E ancora, tanto per non farsi mancare niente: ha partecipato a molti progetti collettivi, tra cui “Nessuna Più – Quaranta scrittori contro il femminicidio” (pubblicata da Elliot) e fa parte della giuria dei premi Città di Subiaco e Città di Latina. “Sì, è tutto vero, ma resto umile”, dice ridendo e scherzando. “E comunque per me lo scrittore è quello che continua a frequentare mezzi pubblici e mercati, che vive una normale quotidianità e magari ha pure un altro lavoro. Peraltro, caro Ermanno, secondo me il mondo dell’editoria è tutt’altro che un osservatorio privilegiato, giusto per anticipare una domanda che avresti voluto farmi. Anzi, a farne parte si rischia di perdere il contatto con la realtà. E’ una mia scelta e non è detto che sia corretta, ma preferisco evitare come la peste (e il termine oggi mi sembra appropriato) i cosiddetti “salotti letterari” e un certo intellettualismo chiuso, con la puzza sotto al naso. Insomma, il vero “osservatorio privilegiato” è essere una persona come tutte le altre”.

Un’altra bella immagine dello scrittore romano Marco Proietti Mancini

Beh, però tu imperversi ogni giorno su Facebook…

“Certo, però essere presente sui social network significa vivere, conoscere, assorbire quotidianità, non con la pagina pubblica dello “scrittore”, ma come utente fra gli altri utenti”.

Torniamo a parlare di Milano, provando con un grande sforzo emozionale e mentale ad allontanarci dall’unico argomento di questo periodo. Tu conosci Milano per diverse ragioni e soprattutto perché hai vissuto qui. Com’è la nostra città vista da Roma?

“Le mie impressioni sono condizionate dal non essere milanese e dall’aver vissuto a Milano soltanto per periodi brevi. La mia conoscenza della “milanesità”, dell’essere milanesi come si può essere romani, napoletani o palermitani, viene soltanto dalla lettura dei libri scritti dai cari amici come te e dalla loro frequentazione. Quel che posso dire è che rispetto alle mie prime esperienze (parliamo dell’ormai remoto 1988, durante i corsi di formazione nella prima azienda in cui ho lavorato) Milano si è trasformata ed è diventata ancor più internazionale. Un cambiamento, questo, che se da un lato le ha fatto perdere alcune caratteristiche tipiche (penso ai quartieri di una volta, per esempio) dall’altro l’ha arricchita di mille influenze e contaminazioni (un altro termine purtroppo attuale) che ha saputo assorbire come nessun’altra città italiana. Milano oggi, a mio avviso, è la più europea delle città d’Europa.

Tra milanesi e romani la concezione del tempo è stata sempre molto diversa. Tu che ne pensi? E’ ancora così?

“No, non credo che la distanza sia ancora così netta. Io lavoro ogni giorno con colleghi di Milano e penso di poter affermare che ormai a Roma, almeno nel mio ambito lavorativo, c’è una concezione del tempo e delle scadenze molto simile, appunto, a quella di Milano. Semmai quella che continua a essere diversa è la gestione del tempo: a Milano si continua a “schedulare”, “programmare” e ad avere la necessità di quello che nel mio ambiente viene chiamato “workplan”. A Roma c’è ancora l’estemporaneità, ci affidiamo di più all’istinto che a un’agenda. Però, durante questi anni, Milano ha imparato a sdrammatizzare e a godere delle pause caffè, mentre a Roma adesso abbiamo più rispetto di orari e appuntamenti. Sempre per rimanere nel linguaggio degli affari, c’è stato un “Win-Win”…

Che opinione hai del fenomeno dell’immigrazione a Milano? In fin dei conti, sei stato un immigrato anche tu, qui, per un po’ di tempo…

“Alla fine degli anni ’80 l’immigrazione da voi (come altrove, del resto) era incontrollata, poco gestita, un fenomeno inatteso che provocava confusione e disagio. Con dieci, quindici anni di anticipo c’erano zone che stavano diventando, diciamo così, “extraterritoriali”. Però, come ho accennato prima, Milano ha avuto una capacità d’integrazione migliore di altre città italiane, forse per l’esperienza accumulata fin dal secondo dopoguerra ad accogliere e “milanesizzare” tutti. Prima erano calabresi, siciliani e pugliesi, poi sono arrivati gli stranieri, ma adesso, nel 2020, ci sono solo milanesi. Magari di prima generazione, ma quello sono, in fin dei conti”.

Per concludere, Marco: come vedi il futuro di questa città, al di là dell’emergenza? E il tuo rapporto con Milano?

“Il futuro di Milano è nelle mani di Milano. Sembra una frase fatta, ma indica la sua essenza stessa ed è il complimento più grande che io possa farle. Perché di città che siano in grado di autodeterminare il loro futuro io, in questo momento, almeno in Italia, non ne vedo. Riguardo al mio rapporto con lei, beh, spero, prima o poi, di poterla vivere un po’ anche da turista. Godere delle sue bellezze, della sua arte e della cultura come se fossi un giapponese”…

Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)

Fotografie di Anna Celani