Giuseppe Selvaggi: “Andare per mare sulla terraferma. Perché sono finito a Milano?”

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Pensavo che l’età dei “perché” fosse relegata a quella della crescita. Invece, mi accorgo che forse non si cresce mai abbastanza. Mi capita sempre più di frequente, infatti, che le domande, una serie di domande, si accalchino spontanee e irrisolte. Perché a volte la vita ci appare come una specie di trappola? Perché spesso crediamo che non sia un’avventura interessante e perché sempre più persone cominciano a chiedersi, superata una certa età, quando riusciranno a godersi la vita? È molto più facile affascinarsi alle stranezze del mondo, piuttosto che vedere la vita come un viaggio divertente. Certo, se penso a quelle persone che si alzano prima dell’alba e rincasano dopo il tramonto, ogni giorno, dopo una giornata di lavoro duro, non posso che dirmi fortunato.
Perché sono finito a Milano?
Questa domanda forse non ha senso, oggi. È passato tanto tempo e i ricordi, quando riaffiorano, sanno di tradimenti, rabbia, bugie. La prima volta che giunsi a Milano faceva caldo, scesi dal treno con un solo bagaglio a mano e un gruzzoletto in tasca da difendere finché non avessi trovato un lavoro. L’ospitalità me l’avrebbe data un’anziana signora amica di famiglia, che viveva lì da sempre. Già il giorno dopo indossai la giacca e la cravatta per andare a presentare la mia candidatura a una grande azienda, che preferì assumere “il nipote di”. Per un po’ di tempo mi sono chiesto a cosa servissero i documenti attestanti i miei studi. Sono passati tanti anni da quei giorni, in attesa del lavoro mi ero specializzato a riempire i vuoti e a organizzare il niente. Oggi ho una casa borghese senza troppe pretese, ma non lontano dal Centro, sono noto e apprezzato anche oltre i confini del mio condominio. Il mio paese di partenza mi manca, mi manca sempre più spesso, anche se ogni volta che ritorno ho fretta di ripartire: troppe cose sono cambiate. Non sto nemmeno a discutere della famiglia e degli amici, questo è scontato. O forse no, ma ad ogni modo credo che sia la prima cosa che viene in mente, quando si chiede a un emigrato cosa gli manchi. Mi manca il cibo, è vero, il clima, tanto e in particolare il sole. A volte, quando mi sento un po’ giù, triste, abbattuto, credo che avrei soltanto bisogno di una dose di melanina. Pagato il tributo malinconico alle nostalgie, devo confessare che non lascerei Milano facilmente, anche se è vero che non devo pensare troppo alla nebbia o al caffè sapore sciacquatura di piatti. Non tornerei a vivere a Bisceglie, ma non riesco a rinunciare a tornarvi, a fare scorta di sole e di un po’ di calore umano. Oltre 40 anni fa rimanere in Italia era una delle ipotesi, solo che non avevo proprio idea, a Milano c’erano tanti miei paesani e qualche lontano parente che si ricordava di esserlo solo quando si trattava di non pagare l’albergo, infilandosi in casa dei tuoi per parte della stagione estiva. La mia ancora di salvezza fu il fratello di mio zio, che gestiva un ristorante di lusso nella “Milano da bere” e che si offrì di aiutarmi. Trovai alloggio, dicevo prima, in una stanza messami gratuitamente a disposizione da una vecchia signora quasi cieca, il cui figlio era stato amico fraterno di mio padre. Il resto sono solo ricordi, la strada invasa dai tifosi all’annuncio di essere “Campioni del mondo”, era il 1982, ero appena arrivato a Milano. era estate, ero abbronzatissimo, non avevo ancora un lavoro, avevo poco da festeggiare. Non conoscevo nessuno e presentarsi a un’impresa per chiedere lavoro sembrava un gesto quasi maleducato, come autoinvitarsi a pranzo a casa di uno sconosciuto. Avevo inviato circa un centinaio di curriculum vitae, avevo ricevuto tutta una serie di risposte “copia e incolla”. Stavo maturando l’idea di andare via dall’Italia, ma il mondo era grande e il fatto di andare incontro all’ignoto mi dava un forte senso di angoscia. Quando riuscii a farmi assumere in una grande banca internazionale ero solo contento per il prestigio che me ne sarebbe derivato. Sarei tornato al paese e come gli emigrati di un tempo, che tornavano con la moglie teutonica o la macchina sportiva, avrei distribuito bigliettini da visita che avrebbero certificato il mio “successo”. Ricordo con ironica nostalgia il primo giorno di banca, l’equivoco con l’Ufficio del Personale, dove una poco attenta impiegata aveva predisposto per errore una lettera di assunzione come “commesso” prontamente sostituita con un’altra, in cui venivo assunto come “assistente del vicedirettore generale in Italia” e con le pronte scuse del Capo del Personale. Oppure quella del fotografo del paese a cui mi ero rivolto per le foto da consegnare a corredo della mia pratica di assunzione, che in epoca democristiana mi disse: “Peppino, per lavorare in banca era proprio necessario andare fino a Milano?”. A Milano, per molto tempo, non andai a un matrimonio, né a un funerale, né a un battesimo. Sembrava che in quella città nessuno nascesse o morisse o si sposasse, che non capitasse nulla, né di bello né di brutto. Solo più tardi capii che dipendeva da me: vivevo nell’illusione che Milano sarebbe stato il prezzo da pagare solo per pochi mesi, non mi interessava consolidare nessun rapporto umano. Andavo per le strade e non c’era uno che mi salutasse, che mi sorridesse, che avesse conosciuto mio padre o mia madre, che avesse in comune con me un solo, unico ricordo. Potevo anche inventarmi una nuova identità e nessuno se ne sarebbe accorto. “Vivere altrove”, un’esperienza unica è una rarefazione di rapporti umani nel presente, perché vedi la tua vita che non può, non deve svolgersi in quel luogo, perché vuoi convincerti di non aver del tutto disfatto la valigia. Al ritorno a casa, quella vera, in Puglia, respiro, sento il profumo di strade che viaggio dopo viaggio diventano note e accoglienti, riconosco i cantoni e i locali, ricordo momenti e persone. Abbraccio con lo sguardo la casa che mi vide giovane e combattivo. Una parte di me non è mai partita. Oggi, quando mi chiedono perché sono finito a Milano, mi convinco ripetendomi che ho combattuto per ampliare gli spazi di luce. Avevo come uniche armi la parola, un palcoscenico vuoto e una sedia, tanta fantasia e poco contante.
Allora sognavo. E sogno ancora. Sogno il mio lungo viaggio della vita…

Giuseppe Selvaggi (ex dirigente bancario, oggi poeta, scrittore e promotore dell’Associazione Pugliesi a Milano)