E’ originaria di Napoli (per la precisione di San Giorgio a Cremano, il paese che ha dato i natali al grande Massimo Troisi) e da vent’anni vive in Lombardia, facendo spola tra Busto Arsizio (dove abita) e Milano (dove lavora). Carla Vetere insegna Lettere Classiche presso la Scuola Militare P. Teulié di Milano e collabora come cultore di materia alla cattedra di Storia Medievale dell’Università Cattolica di Milano. Recentemente, per essere vicina ai suoi allievi durante il tempo della didattica a distanza, ha creato un canale tematico su Youtube.
Professoressa, durante l’Emergenza Coronavirus sono emerse altre grandi crisi del nostro Paese. Innanzitutto quella della lingua, visto ciò che è accaduto e ancora accade, riguardo ai problemi di comunicazione legati a questa situazione. Come sta l’Italiano, secondo Lei?
“A me pare che l’Italiano goda ancora di buona salute. Non dimentichiamo che è una delle lingue più parlate al mondo e conserva il suo primato in molti settori, per esempio quello della lirica. L’Italiano è la lingua che l’animo umano usa per comunicare la bellezza e l’armonia. Ciò premesso, dal mio osservatorio di docente devo dire che è anche una lingua molto sottovalutata e insidiata dagli italiani stessi. Pare che noi italiani siamo sempre ammalati di esterofilia, consideriamo gli altrui idiomi migliori del nostro per esprimere molti concetti, che invece la nostra lingua consente di descrivere in maniera efficace. Il primo ostacolo, per paradossale che possa sembrare, è la corretta conoscenza del nostro patrimonio linguistico. Se si osserva anche solo superficialmente il lessico comunemente in uso ci si accorge che il numero dei vocaboli adoperati è estremamente ridotto. Conoscere pochi vocaboli indica, a mio modesto avviso, la presenza di almeno due emergenze comunicative: si conoscono pochi concetti e si trova difficoltà a descrivere il reale nelle sue sfaccettature e nei suoi cromatismi. Questa povertà lessicale ci accomuna tristemente agli altri popoli. Anche nelle altre lingue la comunicazione si sostanzia e si struttura intorno a pochi elementi, ma noi dovremmo recuperare la consapevolezza che la nostra è una lingua che si evolve splendidamente nel tempo, pur conservando più dell’80 per cento dei vocaboli di Dante, il poeta che il mondo ci invidia e che resta un modello insuperato di ricchezza e varietà linguistica. L’Italiano porta con sé la sua storia e con la sua storia costruisce il presente e prepara il futuro. Vale la pena di apprendere più vocaboli e più strutture per meglio esprimere quello che siamo in grado di percepire col cuore e con i sensi e per avere più strumenti per precisare il nostro pensiero”.
L’impoverimento linguistico lo si attribuisce ai mezzi di comunicazione. Per Lei è davvero colpa di giornali, tv e social network, oppure è soltanto un problema di chi li adopera?
“Io direi che è innanzitutto una responsabilità di chi non vuole che si insegni degnamente, della cattiva politica che taglia i fondi alla scuola e vuole solo numeri più alti di promossi “perché l’Europa ce lo chiede”. Per quanto mi riguarda, l’Europa può chiedere tutto quello che vuole, ma se poi molti Paesi europei ai test internazionali, sia nel settore umanistico che in quello scientifico, finiscono agli ultimi posti in graduatoria, non mi pare proprio il caso di adeguarsi. E mi viene il dubbio che l’Europa che ci chiede l’appiattimento verso il basso lo faccia per eliminare un temibile concorrente. È ovvio che se non si insegna l’Italiano l’impoverimento linguistico diventa un problema; non è possibile adoperare uno strumento che non si conosce e d’altra parte è arduo “sapere di non sapere”. La consapevolezza delle proprie carenze è una difficile conquista perché implica anche la volontà di superare i propri limiti. Lo vediamo molto bene sulle reti sociali e nei mezzi di comunicazione. Forse dovremmo fermarci a leggere in che modo ci si esprime e inorridire per l’incapacità di formulare pensieri in maniera completa, coerente e ben strutturata. Oltretutto si sottovalutano i rischi di una comunicazione poco corretta. Le parole, se usate in maniera sbagliata, possono fare veramente male e non basta la buona fede di chi scrive per giustificare il dolore che si produce. D’altro canto ci sono giornalisti e scrittori che si esprimono benissimo e proprio per questo, paradossalmente, non sono largamente compresi. Lo trovo molto triste, perché denota un appiattimento verso il basso, che con gli strumenti in nostro possesso per studiare appare veramente grave. Dunque bisogna puntare in alto, verso una formazione linguistica migliore e smettere di dare troppe cose per scontate. Non è vero che coloro che sono nati in Italia conoscono bene l’Italiano, spesso non lo conoscono perché vivono in contesti dove la lingua è parlata malamente. Un ragazzo che è in grado semplicemente di farsi capire e di esprimere bisogni e concetti elementari è uno straniero in casa propria. Infatti, se ci riflettiamo, la comunicazione elementare è l’obiettivo di chi insegna l’Italiano agli stranieri. Ma io non voglio essere straniera in
casa mia, perché se la mia lingua è un’espressione ed un’espansione del mio mondo voglio che il mio mondo sia un grande giardino colorato e ricco di piante e fiori diversi, non un uniforme deserto di grigio cemento”.
Il linguaggio politico (e non solo) è pieno di parole straniere. Sono termini di passaggio, di breve durata, oppure rimarranno per sempre nella nostra lingua?
“Io credo fermamente che la lingua sia un luogo di combattimento. La lingua è la cultura profonda di un popolo e la colonizzazione linguistica è il primo e più duraturo strumento di conquista. Nei paesi coloniali, non a caso, permangono le lingue dei paesi colonizzatori. Dunque, il fatto che un politico usi termini stranieri in maniera sistematica per quanto mi riguarda è un fatto grave perché implica una sudditanza culturale ad altre realtà. Se ne sono accorti molto bene i francesi, che tramite l’Académie Française hanno sistematicamente tradotto i vocaboli stranieri e progressivamente diffuso la versione francese, in particolare per termini specialistici. Quanto alla permanenza di questi vocaboli, mi pare che sia una questione di mode, quindi qualcosa di passeggero. Il problema, semmai, è che ad un vocabolo straniero se ne sostituisca un altro ancora straniero. E questo è frutto della povertà del proprio lessico, da una parte, e dell’incapacità di comprendere la portata politica di questo limite dall’altra”.
L’Italiano in Europa è poco utilizzato. Perché, secondo Lei? Dipende dal dominio incontrastato (e vista la Brexit britannica a questo punto anche ingiustificato) dell’Inglese?
“L’Italiano è poco parlato perché sono sempre gli italiani che si sforzano di andare incontro agli altri e non chiedono alle persone di altre lingue di fare lo stesso sforzo. In più il nostro Paese, purtroppo, non investe in ricerca e non è all’avanguardia in tanti settori strategici. Molti marchi italiani importanti trasferiscono la propria sede in altri Paesi, dove l’infrastruttura statale è più efficiente e meno vessatoria nei confronti degli imprenditori e dei lavoratori. E se le stesse aziende italiane non parlano più Italiano è difficile fare in modo che altri abbiano interesse a parlare la nostra lingua. L’inglese si è storicamente diffuso molto in ragione del fatto che i Paesi colonizzati dagli inglesi ancora adesso sono quelli economicamente più forti, quelli coi quali c’è più convenienza a parlare. Inoltre, alla Brexit siamo arrivati dopo molti anni di colonizzazione linguistica da parte dei popoli anglofoni, tanto è vero, come Lei ricordava prima, che i politici usano numerosi vocaboli stranieri ed io aggiungo che la gran parte sono inglesi. Poco importa che si usi un Inglese che farebbe sorridere un suddito della Regina Elisabetta, quello che conta è che per molti decenni il punto di riferimento sia stato l’Inglese. La storia ci parla della permanenza di questa lingua e della sua capacità di permeare la comunicazione praticamente in tutti i settori, dagli affetti agli affari, dalle leggi (Jobs Act) alle reti sociali (i famigerati Social Network). Inoltre, l’Europa dialoga con gli Stati Uniti d’America, che sono un Paese anglofono di molti milioni di persone. Infine, Le faccio notare che l’Inglese si è imposto per l’apparente semplicità delle strutture linguistiche e del lessico. E sottolineo l’aggettivo “apparente” perché è complesso parlare un buon Inglese, con una pronuncia veramente corretta, un uso coerente dei verbi e un lessico adeguatamente ampio. Ma poi bisogna chiedersi a cosa serva veramente una lingua; l’Inglese è molto utile per le comunicazioni immediate e concrete, ma un buon Inglese ci occorre per penetrare nel mondo concettuale e ideale
degli anglofoni”.
Perché i giovani arrivano nelle università con forti lacune linguistiche?
“La risposta più ovvia è che la scuola non funziona. Ma io ritengo che sia la società in cui la scuola opera la vera responsabile del progressivo imbarbarimento. La scuola risponde alle esigenze del contesto sociale in cui è inscritta. Se la società (le famiglie e la politica) vuole il “sei politico” solo per il fatto che un allievo sia capace di una comunicazione elementare tesa all’immediato e al concreto la scuola non può fare niente. E questo è responsabilità di chi, a livello sociale prima che politico, ha voluto la scuola-azienda, che ha dei clienti e non degli studenti, che retribuisce i dirigenti sulla base del numero degli studenti iscritti e che consente a dei giovani, ancora in fase di formazione, di valutare la bravura dell’insegnante, il quale riceverà il suo “premio di produzione” proprio sulla base del grado di soddisfazione dei clienti. Ma è esperienza comune e condivisa che a distanza di anni si ricordano con gratitudine proprio i docenti più rigorosi e più attenti a dare e pretendere una preparazione di alto livello perché è proprio quella preparazione che fa la differenza nella vita reale, al di fuori delle mura scolastiche. Inoltre, con l’autonomia scolastica si è consentito alle realtà locali di influire pesantemente in quella che secondo me deve restare una priorità e una competenza esclusiva dello Stato centrale. Garantire un livello di istruzione alto ed uniforme per tutti gli Italiani è a mio avviso la priorità assoluta per creare cittadini consapevoli, in grado di esercitare consapevolmente i propri diritti e quindi di preservare la democrazia. Quando si arriva all’università si richiede una preparazione linguistica forte per comprendere e produrre testi complessi e la scuola, concepita come azienda, non è messa in condizione, nella gran parte dei casi, di fornire questa competenza”.
“A proposito di università: come giudica l’impegno degli atenei milanesi durante questa emergenza sanitaria, ma che è anche politica, economica e sociale?
“Gli atenei milanesi hanno reagito responsabilmente e soprattutto velocemente, in una situazione nella quale il “fattore tempo” si è rivelato fondamentale per evitare disastri. I Rettori hanno trovato molto rapidamente accordi trasversali per disciplinare la vita degli atenei e i docenti si sono rapidamente attrezzati e adeguati per non consentire all’emergenza sanitaria di diventare anche un’emergenza formativa e culturale. Le università hanno dato un nobile esempio di buona politica, quella che analizza tempestivamente e affronta i problemi. Un esempio senza dubbio da imitare”.
Non crede che come spesso accade, paradossalmente, in situazioni come quella che stiamo vivendo da alcuni mesi si creino nuove opportunità in tutti gli ambiti, dal sociale al culturale e a quello lavorativo e professionale?
“Innanzitutto desidero sottolineare che per molti la chiusura totale si è rivelata una tragedia. Molti imprenditori e molti lavoratori, soprattutto in Lombardia, si sono trovati e si trovano ancora in grande difficoltà. Ma l’emergenza sanitaria ha permesso qualcosa di cui si sentiva il bisogno: un bagno di umiltà. Ed è questo fattore che ha consentito effettivamente il sorgere di nuove opportunità. Abbiamo dovuto inventare soluzioni a problemi sconosciuti e questo è sicuramente positivo. Penso per esempio al lavoro in digitale da casa (mi perdonerà se esito ad usare smart working) che ci ha rimesso in contatto con la quotidianità di rapporti familiari non più frammentati nello spazio e in lotta contro il tempo. Peraltro, la produttività in molti casi è aumentata perché non ci sono più i tempi morti e lo stress degli spostamenti. Numerose aziende si sono riconvertite e molti commercianti hanno compreso l’importanza dei rapporti umani, dell’andare anche fisicamente incontro ai clienti. Per la scuola, al di là dei problemi legati alla didattica a distanza, si è visto molto bene come il Piano Nazionale Scuola Digitale non doveva essere messo in secondo piano perché se tutte le istituzioni scolastiche avessero proceduto nel tempo alla creazione di piattaforme digitali di dialogo tra docenti e studenti non ci saremmo trovati impreparati alla chiusura fisica degli istituti. Inoltre, la didattica a distanza si è trasformata in un’opportunità per aumentare l’offerta formativa. Personalmente ne ho approfittato per far intervenire, senza dover chiedere spostamenti fisici e senza oneri per la scuola, un docente universitario per approfondimenti di Letteratura Latina, un Generale con grande esperienza in missioni internazionali per parlare di integrazione e un regista per far esercitare i miei allievi nella lettura espressiva di un canto di Dante. E’ stato un enorme arricchimento e un ampliamento delle prospettive, che penso di coltivare anche al rientro in aula”.
Parliamo in conclusione di Milano a prescindere dalla drammatica situazione attuale, che speriamo possa finire al più presto. Dall’Expo in poi la nostra città è oggettivamente cambiata: è migliorata ulteriormente l’offerta culturale ed è letteralmente esplosa quella turistica. Per contro, secondo me, è peggiorato il tessuto sociale: complice anche la crisi economica che continua a mordere risulta schiacciato verso il basso. Che ne pensa?
“Milano nel tempo ha dimostrato davvero di essere una grande città piena di energie positive e si è guadagnata un rispetto che travalica i confini dell’Europa. Ma Lei ha ragione a parlare di schiacciamento verso il basso; le differenze sociali si sono accentuate e i nuovi poveri sono aumentati. Anche il livello di sicurezza lascia molto a desiderare. Le persone che arrivano si trovano in una città dove tanti non rispettano le norme o creano regole proprie senza che ci sia un’incisiva azione di contrasto, come si è visto molto bene in piena emergenza. Questo clima di insicurezza sociale non fa bene. Inoltre, si viene a Milano pensando che ci sia un lavoro stabile per tutti. Questo non è vero. A Milano, come in molte altre grandi città, c’è molto spazio per lavori interinali, ma la richiesta è soprattutto per i professionisti con alto grado di specializzazione. Non si deve dimenticare che Milano è una metropoli all’altezza delle grandi città mitteleuropee e in effetti la presenza di manager europei è grande. Per le persone che non hanno una professionalità ben formata, purtroppo, il senso di sconfitta sociale e conseguentemente di frustrazione produce lo schiacciamento verso il basso e la ricerca di strumenti ai limiti della legalità”.
“Proprio un’ultima domanda, anzi, due: che opinione ha del fenomeno
dell’immigrazione a Milano e in Lombardia? In fondo, anche Lei, come me, è un’immigrata…E cosa può cambiare, riguardo a questo aspetto, dopo tutto quello che è accaduto, che sta ancora accadendo e che porterà sicuramente a un ripensamento del nostro modo di intendere la società e il lavoro?
“Quando penso agli spostamenti delle persone io ragiono in termini di “xenía”, cioè di ospitalità nel senso classico del termine. Si pensava anticamente che gli ospiti venissero da Zeus e per questo meritassero una buona accoglienza e il rispetto. Ma questi rapporti esigevano una reciprocità che oggi non si vede. Mi spiego meglio: nell’antichità l’ospite si presentava possibilmente con dei doni tra le mani per chi lo accoglieva e in ogni caso era tenuto ed era assolutamente disponibile al rispetto delle regole della casa e della famiglia che lo accoglieva. Non si presentava per pretendere diritti, ma solo cibo, sicurezza, un tetto sulla testa e le cure necessarie per riprendere il proprio viaggio. E sapeva che sarebbe stato tenuto a donare lo stesso aiuto nel caso che la persona che lo ospitava si fosse presentata alla sua porta. Si entrava in casa altrui in punta di piedi per chiedere e non per pretendere. Questo era
anche un modo per creare dei rapporti duraturi tra persone che spesso abitavano in luoghi molto distanti. Se poi la permanenza si protraeva nel tempo era ovvio che si rispettassero le regole e le istituzioni del luogo in cui ci si stabiliva. Questo è il modello che mi piace: ospitalità coniugata col rispetto reciproco. Ed è il modello che ho seguito quando sono venuta in Lombardia. Mi sono adeguata ai ritmi e alle usanze lombarde. Certo, poi in casa mia si mangia secondo la tradizione napoletana (e sorride), ma questo non è il modo di fare comune. Spesso chi si sposta viene a pretendere diritti che non aveva al suo Paese ed a imporre modi di vita che, mi spiace dirlo, costituiscono parte delle ragioni per cui il Paese di provenienza è invivibile. Di più, io sono venuta dopo aver vinto un concorso ordinario a cattedra, quindi con un posto di lavoro che mi consentiva di essere economicamente autonoma e di non essere di peso a nessuno. Non mi pare che sia questa la situazione di tutti gli immigrati. Da quello che leggo sui giornali e vedo per le strade, tanti vengono in Italia e poi in Lombardia, nella regione considerata la più ricca d’Italia, con l’idea di aver diritto a sussidi, vitto, alloggio, istruzione e sanità. Inoltre, molte persone arrivano qui non per scelta, ma perché
vittime della tratta delle vite umane. Tanta povera gente è stata fatta arrivare proprio in Italia per essere sfruttata, altrimenti non si comprenderebbe perché navi di bandiera non italiana non sbarchino i migranti nei propri Paesi. Questa immigrazione massiccia e spesso non volontaria produce seri rischi sociali. Il primo è l’odio; tanti italiani che per anni hanno pagato tasse per garantire uno Stato sociale e solidale si accorgono prima con sgomento, poi con fastidio, infine con odio che le provvidenze sociali sono di fatto appannaggio di coloro che non hanno contribuito a sovvenzionarle. E’ chiaro che poi un padre di famiglia italiano si senta frodato. Chi può si rivolge alla sanità, così come alla scuola privata; chi invece non ha la possibilità economica si ritrova spesso in strutture a misura di immigrato non italofono. E ci ritroviamo nella paradossale situazione per cui gli immigrati non hanno più un sistema di istruzione che permetta loro di crescere e di integrarsi veramente, mentre gli italiani rischiano quell’impoverimento culturale che li condanna ad essere stranieri in casa propria. Le conseguenze, purtroppo, già si vedono. Io credo che lo stato sociale debba permanere, ma bisogna essere consapevoli che il sistema non è in grado di reggere l’immigrazione massiccia di persone senza una professione e non disponibile a far proprie e rispettare le regole che rendono il nostro un bel Paese dove vivere. Per questo immagino, nel futuro, la fine della tratta di vite umane, che condanno senza possibili appelli, flussi controllati di immigrati ad alta specializzazione e il reinserimento delle persone richiedenti asilo in tutta l’Unione Europea, senza Stati che rispediscono nei confini italiani gli immigrati, senza ruspe per sgombrare la cosiddetta “Giungla di Calais” e senza muri accompagnati da filo spinato”.
Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)