Giuseppe Di Matteo: “Milano offre tutto, ma è una città difficile. Richiede grandi energie e disponibilità economiche. Sta a noi scegliere se accettare la sfida”.

Pur essendo molto giovane (ha soltanto 36 anni) fa parte di quella categoria di giornalisti vecchio stampo che oggi non esistono quasi più e dei quali personalmente sento la mancanza, per la loro capacità di trasmettere valori umani e professionali in grado di arricchire moralmente e culturalmente il loro pubblico di lettori e di ascoltatori. Giuseppe Di Matteo, barese, giornalista professionista, poeta e scrittore, è un uomo intenso, che vive la sua esistenza terrena con la malinconica allegria tipica degli intellettuali sudamericani, dei quali i tratti della sua scrittura ne richiamano lo stile. Ha lavorato per diverse testate e quotidiani, tra cui Il Giorno e Telenorba. Attualmente collabora con La Gazzetta del Mezzogiorno, dove si occupa di cultura e recensioni di libri. Approfittando della nostra grande amicizia e della sua presenza qui abbiamo chiacchierato della nostra amata Milano (e non solo).

Caro Giuseppe, tu ormai puoi essere considerato un milanese “honoris causa”, perché hai vissuto per qualche anno nella nostra città, ci torni spesso e perché ne canti continuamente le lodi. Sei una persona adatta, quindi, a tracciarne un profilo. Com’era, com’è cambiata e come sta cambiando Milano, secondo te?

“Milano è una città fantastica, certamente la più europea d’Italia. Dopo la crisi degli anni ‘90, quella che viene definita non a caso “la capitale morale” è riuscita a risollevarsi e oggi è certamente una meta molto ambita. E non solo a livello turistico: a Milano, infatti, viene chi cerca nuove opportunità, chi ama la moda, la cultura, il calcio e anche la buona cucina. Direi che il capoluogo meneghino è “l’ombelico del mondo” italiano. Passa tutto da qui”.

Giuseppe Di Matteo durante le riprese di un suo servizio televisivo per l’emittente pugliese Telenorba

Milano ha sempre avuto un respiro più ampio dei suoi confini. Tutto quello che la riguarda interessa sia a livello nazionale che internazionale. Pensi che sia in grado, anche oggi, di interpretare questo ruolo? Oppure è stata “colonizzata”, nel senso che questo interesse esterno ha prodotto investimenti economici e finanziari che hanno portato imprenditori, finanzieri e banchieri ad impadronirsene?

“Milano è una città internazionale. Lo è sempre stata, come sottolineavi. E allora è normale che attragga anche investitori e capitali stranieri. Ma non credo che si lasci colonizzare tanto facilmente. Ritengo, anzi, che possa più che mai proporsi come città d’avanguardia proprio grazie alla sinergia costante tra italiani e stranieri. Siamo in un mondo globalizzato, dove contano soprattutto le idee. Non importa da chi provengono. Purché, ovviamente, vengano rispettate le regole della democrazia e di un capitalismo che vorrei fosse più etico”.

È opinione diffusa che Milano sia la città ideale, oggi, per gli studenti e per i trentenni e i quarantenni in generale. Qual è la tua opinione?

“Non posso che condividere. Milano offre tutto quello che una persona possa desiderare. E non solo a 30 o 40 anni. Certo, sono ben cosciente del fatto che per molti aspetti sia una città difficile perché richiede grandi energie e una disponibilità economica non indifferente. Ma questo è il prezzo che una metropoli impone. Sta a noi scegliere se accettare o meno la sfida. Lo dico anche perché ho vissuto qualche anno a Londra. E ho imparato molto”.

Che opinione hai (se te la sei fatta) del fenomeno dell’immigrazione a Milano?

“L’immigrazione è un tema delicatissimo, sul quale dobbiamo imparare a ragionare senza accapigliarci. A Milano gli immigrati sono tantissimi e nella maggior parte dei casi molto ben integrati. E questa è una medaglia che la città può appendersi al petto. Le opportunità, come è giusto che sia, devono essere offerte a tutti. Lo dico anche da meridionale: non scordiamoci che un tempo gli immigrati eravamo noi. E lo siamo tuttora. Perché ancora oggi gli italiani continuano ad andarsene. Sia al Nord sia all’estero”.

 

 

La copertina di “Frammenti di un precario” (Les Flàneurs Edizioni, 2019), il nuovo libro di Giuseppe Di Matteo

Hai appena pubblicato il tuo nuovo libro “Frammenti di un precario”, edito da Les Flâneurs. Ce ne vuoi parlare?

“Si tratta di un esperimento di lirica “narrativizzata”, che partendo da un’esperienza personale si propone di raccontare la precarietà dei nostri tempi. La quale, mi preme sottolinearlo, va ben oltre il precariato in ambito lavorativo. La precarietà è a mio avviso una condizione esistenziale, che da transitoria sta diventando definitiva. Non siamo più sicuri del nostro posto di lavoro, ma nemmeno della “geometria” dei nostri affetti, che un tempo erano un porto sicuro. Il rapporto tra genitori e figli è in crisi. Ci si sposa sempre meno. Non parliamo poi del mondo esterno: ogni giorno si assiste a una guerra tra poveri, che rende precaria la convivenza civile tra gli individui, bianchi o neri che siano. Ma nel libro parlo anche della mia terra (che immagino sempre in bilico tra un passato che si sta perdendo e un futuro incerto) e di Milano. Il libro, infatti, è nato proprio qui”.

Un’ultima domanda, Giuseppe. Cosa significa, secondo te, essere un precario nel proprio ambito professionale (e quindi nella vita privata) a Milano e in altre parti d’Italia, come ad esempio la tua Puglia?

“C’è poco da dire: è dura. A Milano così come in Puglia. E non solo in ambito lavorativo. Perché il precariato (e di conseguenza la precarietà) si insinua anche nella sfera privata, distruggendo ogni certezza. È inevitabile che sia così. Bisogna essere bravi a resistere. Solo così si può ripartire”.

Ermanno Accardi (giornalista e scrittore)